History of the Peloponnesian War

Thucydides

Thucydides. Della storia di Tucidide volgarizzata libri otto. Anonymous translator. Florence: Tipografia Galileiana, 1835.

« All’opposto, quel valor nostro primiero, col quale, sebben tuttora inesperti, osammo far fronte al nemico, fatto ora più stabile, ed accompagnato dalla opinione di esser fortissimi perchè su fortissimi avemmo vittoria, porge a ciascuno di noi doppia speranza. Or per lo più, grandissima speranza desta grandissimo vigore per le imprese. Quanto all’avere i nemici contraffatto alcune parti del nostro apparecchio, desse sono ornai consuete alle vostre maniere, e non mancheremo di difesa contro ciascuna di quelle. Ma quando molti de’ loro soldati gravi saranno, contro il solito, sulle coverte ; quando saran saliti sulle navi molti lanciatori terrestri, per così dire, acarnani ed altri, i quali sedendo non troveranno nemmeno il modo di scagliare la freccia ; come non pregiudicheranno alle navi, o come non si troveranno tutti fra sé in disordine, dovendo fare avvolgimenti ai quali non sono usati ? Inoltre la moltitudine delle navi (se vi ha chi teme per avere a combattere con numero non eguale) non sarà

di loro vantaggio ; poiché le molte in luogo angusto riusciranno più lente alle manovre, e più facili ad esser danneggiate dagl’ingegni onde siamo forniti. Tuttavia il vero stato delle cose loro apprendetelo da ciò che noi avvisiamo saper chiaramente. Poiché sopraffatti essi dai mali, e stretti dalle presenti difficoltà, son ridotti alla disperazione di gettarsi nel rischio in quel modo che possano, confidando più nella fortuua che nell’apparecchio delle forze ; per tentare o d’uscire a viva forza dal porto, o di ritirarsi per terra se ciò non riesca ; giacché vedono di non potersi trovare in condizione peggiore della presente.

« Azzuffiamoci adunque animosamente come c’invita siffatto disordine e la fortuna di uomini nimicissiini che spontanea si è posta nelle mani nostre ; e pensiamo che non solo é atto legittimissimo il saziare lo sdegno dell’animo contro avversari che a propria giustificazione alleghino d'esser venuti a punir l' aggressore ; ma che anche sta in poter nostro quella che comunemente dicesi la più dolce delle cose , la vendetta de’ nemici. Che gli Ateniesi ci sieno nemici e nemici mortali voi tutti il sapete , poiché son venuti per fare schiavo il paese nostro ; e se vi fossero riusciti, arebber martoriato crudelmente gli uomini, svergognati i figli e le donne, e posto a tutta la città la più turpe denominazione. Il perché non deve chicchessia allenirsi, né reputar guadagno la loro partita senza nostro pericolo, che certo partiranno egualmente ancor che vincano. Bella impresa sarà per noi (recando ad effetto, come è da credere, i nostri disegni) il punir costoro, e rendere a tutta quanta la Sicilia più stabile quella libertà che anche prima godeva ; e rarissimi son quei cimenti che avendo cattivo esito arrechino piccolissimi danni ; e sortendo buon fine, vantaggi grandissimi ».

I generali siracusaui e Gilippo avendo anch’essi con tali parole confortato le sue genti, ordinarono dal

canto loro che si armassero le navi; da che vedevano gli Ateniesi fare altrettanto. E iSicia costernato per le presenti cose , e vedendo quanto grande e quanto vicino ornai fosse il perìcolo, giacché i nemici erano in sul momento di avanzarsi incontro, temeva, come avviene nei grandi cimenti , quanto al fatto i propri apparecchi essere ancora manchevoli, e quanto alle parole non aver per anche detto abbastanza. Però richiamava ad uno ad uno i trierarchi, appellandoli col nome del padre, e col loro proprio e con quello della tribù, e scongiurava ciascuno a non tradir la chiarezza alla quale era da per sé pervenuto ; e quelli i cui maggiori erano illustri, a non offuscare le virtù degli avi. Rammentava una patria liberissima, e il liberissimo vivere che in quella a tutti era concesso, nè ometteva veruna delle altre cose che dagli uomini si sogliono dire in simili frangenti, non già quelle che a tal uopo si serbano per comparire in faccia a chicchessia narratori di memorie antiche, o quelle che in tutte le occasioni son quasi le stesse, rammemorando le mogli, i figlioli ed i patrii numi ; ma quelle che in siffatto sbigottimento si reputano utili, e ad alta voce s’inculcano. Dopo questa esortazione , che pure ei stimava non bastevole ma quale permetteva quell’urgenza, si ritirò ; e condotto l’esercito di terra sulla costa del mare, lo schierò nella maggior lunghezza possibile , acciò servisse di grandissimo incoraggiamento a quei della flotta. E Demostene, Menandro ed Eutidemo saliti sulle navi ateniesi, delle quali avevano il comando , partirono dal loro accampamento , e vogarono subito alla bocca del porto, dove i nemici avevan formato una serra colle navi e dove restava ancora un passaggio , per vedere di uscirne fuori a viva forza.

E già i Siracusani e gli alleati si erano mossi con un numero di navi pressoché eguale a quello di prima, c con una parte di esse guardavano l’uscita, e con

le altre si misero in giro al rimanente del porto, per assaltare ad un tempo da tutti i lati gli Ateniesi, ed insieme per avere il soccorso della fanteria , dovunque le navi approdassero. Erano ammiragli della flotta siracusana Sicano ed Agatarco ; ciascuno dei quali reggeva un’ala di tutta l’armata, e Pitene coi Corintii il centro. Poiché gli Ateniesi si avvicinarono alla serra, spingendosi innanzi vinsero iu quel primo empito le navi schieratevi a difesa, e si sforzavano di rompere l’ordinanza di quelle che serravano il porto. Dopo di chc, vogando addosso a loro da ogni parte i Siracusani e gli alleati, non solo si combatteva presso la serra , ma anche nel porto la battaglia era feroce e più accanita delle passate. Imperocché quinci e quindi molta era la premura dei marinari per investire il nemico, ovunque fosse comandato, e molto il gareggiamento e l'artificio scambievole dei timonieri; ed i soprassaglienti, quando una nave s’abbordava con l’altra, usavano ogni sforzo perchè il servigio loro di sulle coverte non fosse da meno dell’arte degli altri. Insomma ognuno studiavasi di comparire il primo negli uffici a lui commessi. Ma per la gran quantità delle navi che in angusto spazio si cozzavano insieme (ed angustissimo era lo spazio e mollissime queste navi che vi combattevano perchè tra deiruna parte e dell’altra poco mancava che non arrivassero a dugento), raro era che si andasse all’abbordaggio, non v’essendo modo di trarre addietro per darsi l’abbrivo e traversare le file nemiche ; laddove più frequenti erano gl’ incontri delle navi che casualmente s’imbattevano insieme o volendo fuggire od assalirsi l’una l’altra. E mentre la nave spingevasi contra alcuna delle nemiche, quei di sulle coverte scagliavano contr’essa un’infinità di giavéllotti, saette e pietre ; quando poi trovavansi accosto, i soprassaglienti venendo alle mani sforzavansi scambievolmente di saltare all’arrembaggio. E molte volte accadeva per la
strettezza del luogo di assalire altrui da una parte e trovarsi assalito dall’altra, e che due navi e talvolta anche più fossero costrette ad aggrapparsi intorno ad una ; ed i piloti non in un punto solo , ma in molti e da ogni lato , doveano aver l’occhio a guardarsi da questi e ad assaltar quelli. Inoltre il gran frastuono di tanti legni che si urtavano insieme metteva terrore ed impediva l’udita di ciò che ordinassero i comiti delle due armate, i quali esortavano ed animavano i suoi, per le regole dell’arte e per l’ostinata gara attuale» Gridavano agli Ateniesi, che forzassero l’uscita, che ora più che altre volte mai si dessero premura per tornare a salvamento in patria; ai Siracusani ed agli alleati, che era di loro decoro impedir la fuga al nemico , e che colla vittoria ciascuno accrescerebbe l’onore della sua patria. Di più gli ammiragli da ambedue le parti, se vedevano qualche nave rinculare senza necessità, chiamavano per nome il trierarca ; e quei degli Ateniesi domandavano se indietreggiassero, credendosi padroni di una terra nimicissima più che del mare con tante fatiche acquistato; quei de’Siracusani, se mentre sapevano bene che il nemico facea di tutto per iscappare, essi medesimi fuggissero da chi fuggiva.

Mentre combattevasi in mare con dubbiosa sorte, l’esercito di terra di amendue le parti era in grande smania ed oppressione d’animo : quello del paese perchè anelava ornai di accrescere la gloria ; quello degli Ateniesi, che era venuto di fuori, perchè temeva di trovarsi a condizione anche peggiore della presente. Ed invero riposando tutta sulle navi la fortuna degli Ateniesi, aveano essi una paura del futuro quale non altra mai ; ed appunto perchè la battaglia mantenevasi indecisa, non potevano di sulla costa vederla altro che indistintamente. Conciossiachè essendo quello spettacolo a poca distanza, e non potendo tutti osservarlo sul medesimo punto , se alcuni vedevano iu qualche

parte vincitori i suoi, ripigliavano coraggio, e si voltavano ad invocare gli Dei che non volessero privarli della salvezza: altri, se li miravano soccombere, davano in lamenti ed in strida, e per la sola vista delle cose aveano l'animo più abbattuto di quelli che erano nel fatto. Quelli poi che riguardavano ove la battaglia durava ancor bilanciata , per la continua indecisione di quella gara mostrando con gli atteggiamenti il grave timore ond’erano affetti, si trovavano ansiatissimi, perchè sempre incerti tra lo scampo e la morte. E mentre la pugna si sosteneva con egual calore, nel solo campo ateniese si udivano tutti insieme e lamenti e grida : siam vincitori, siam vinti : e quant’altre voci d’ogni maniera è forza che si ascoltino in un grande esercito in pericolo grandissimo. Lo stesso a un dipresso interveniva a quelli delle navi; finché dopo molto durare di quel combattimento, i Siracusani e gli alleati cacciarono in fuga gli Ateniesi, e manifestamente incalzandoli con alte grida, e l’un l’altro incoraggiandosi, li perseguirono fino sulla costa. Allora i soldati navali, salvo quelli che furon presi nell’alto, chi qua chi là recandosi al lido si ridussero agli alloggiamenti ; e le genti di terra non più svariatamente, ma tutte in una medesima agitazione, con gemiti ed urli dolenti fino all’anima dell’accaduto, chi correva a soccorso delle navi, chi a guardia delle rimanenti fortificazioni , chi (e questi erano i più) pensava a trovar modo di salvezza ; nè fuvvi mai verun altro sbigottimento maggiore di quello. E presso a poco trovaronsi gli Ateniesi nel caso stesso al quale avevan ridotto i Lacedemoni in Pilo ; imperciocché siccome colà erano state conquassate le navi spartane, ed uccise tutte le milizie tragittate nella Sfatteria , così ora erano essi disperati di potersi salvare per la via di terra senza un qualche prodigio.

Dopo sì feroce battaglia, ove da tutte e due le parti molte navi e persone erano perite, i Siracusani e

gli alleati vincitori ripresero i rottami ed i cadaveri, e tornati in città alzarono il trofeo. Gli Ateniesi, per la grandezza delle presenti calamità , non pensarono neppure a domandare la restituzione dei rottami e dei morti, e deliberavano di ritirarsi subito nella notte. Ma Demostene andato a trovar Nicia proponeva che si armassero quante navi ancora restavano, e sul far dell’aurora si tentasse a forza d’uscire del porto ; e diceva che tuttora rimanevano ad essi più navi servibili che non ai nemici, poiché agli Ateniesi ne erano avanzate da sessanta , ed ai Siracusani meno di cinquanta. E quantunque Nicia fosse in ciò d’accordo con lui, e volessero entrambi armare le navi, i marinari ricusarono di salirvi, sì per la costernazione di quella rotta, sì per l’opinione di non poter più aver vittoria. Onde tutti ornai applicavano l’animo a far la ritirata per terra.

Del qual divisamento venuto in sospetto Ermocrate siracusano , e stimando esservi gran pericolo che esercito sì grande ritiratosi per la via di terra si fermasse in qualche luogo di Sicilia, e volesse rinnovar loro la guerra, va dai magistrati ; e tra l’altre cose che gli parvero da dirsi, dichiarò ad essi che non doveansi lasciar partire gli Ateniesi nella notte , ma uscire tutti immantinente, Siracusani ed alleati, e serrar loro le strade, e preoccupare e guardare i passaggi più angusti. Non dissentivano punto i magistrati da Ermocrate iu quella risoluzione, e giudicavano esser da recare ad effetto : contuttociò avvisavano che siccome i soldati di recente pigliavano volenterosi respiro della gran battaglia navale, e di più ricorreva per avventura la festa (per cui in quel giorno facevansi sacrifizi ad onore di Ercole), così non vorrebbero agevolmente obbedirli. Conciossiachè per la soverchia gioia della vittoria la maggior parte dì essi nell’occasione della festa essendosi dati a sbevazzare, tutt’altro era spcrabile

che il persuaderli al presente di pigliare le armi ed uscire contro il nemico. Per queste considerazioni parendo ai magistrati ineseguibile quel disegno, e non avendo Ermocrate potuto indurveli, immaginò egli per ripiego quest’astuzia. Per la tema che gli Ateniesi a bell’agio e senza esser disturbati riuscissero a valicar nella notte i luoghi più difficili, manda sull’ imbrunire del giorno verso il campo ateniese pochi suoi amici con dei cavalieri , che , avvicinandosi tanto da potere esser sentiti, chiamassero alcuni ; e fingendosi amici degli Ateniesi ordinassero di dire a Nicia (il quale invero aveva di quelli da cui risapeva lo stato interno di Siracusa ) che non levasse il campo nella notte, perchè i Siracusani guardavano le strade ; ma che preparatosi a suo bell’agio partisse di giorno. Ciò detto, coloro tornarono indietro ; e quei che li sentirono ne porsero avviso ai generali ateniesi.